“Che non sia un gioco lo capisci sin dal primo giorno, ma il momento che ti rendi conto di fare qualcosa di differente, unico e irripetibile è sicuramente quando indossi l’a.r.o. per la prima volta” ti dice l’allievo che sta setacciando la calce sodata da inserire nel filtro della apparecchio appena citato.
In effetti ha ragione. Oggi l’immersione con le bombole ormai è alla portata veramente di tutti, evoluzioni dal punto di vista tecnologico e formativo permette ai diversamente abili di poter scendere con tranquillità a quote importanti, mentre le immersioni con il rebreather o in miscela trimix regalano emozioni (pericolose) perfino ai sedentari dell’ufficio con la passione delle immersioni.
Ma l’ARO è differente. Semplice, rude, analogico, non ha mercato al di fuori di questa stretta cerchia che è l’uso strettamente militare.
E se per i palombari ha una valenza poco più che didattica, utilizzato poi solo per bonifiche in basso fondale o controlli in carena, sono gli incursori con il nuoto in quota che hanno questa “macchina” come elemento base di tutta la parte addestrativa in acqua e successivamente, per le sue caratteristiche, anche operativa.
Cousteau chiamò il suo film “Il mondo del silenzio”, ma di silenzioso sotto il pelo dell’acqua non c’è nulla: ci sono le barche, le catene delle ancore che sbattono, la risacca che si infrange sugli scogli e sotto tutto viene amplificato, persino i pesci producono rumori, per non parlare delle bolle che emettiamo con il respiratore, un gorgoglio continuo.
L’Aro, autorespiratore ad ossigeno, questo il significato dell’acronimo, è l’unico, primordiale mezzo da immersione che fa dell’occultamento la sua punta di forza. Nulla è cambiato nel suo funzionamento, né nella foggia, da quelli che venivano utilizzati durante il secondo conflitto mondiale dagli uomini gamma sui siluri a lenta corsa.
Il cilindro con la calce sodata, il bombolino di ossigeno, il sacco polmone, il corrugato che porta l’ossigeno al 100% dal sistema alla bocca e dalla bocca nuovamente al sacco dove si rigenererà nuovamente. Il tutto senza emettere alcuna bolla d’aria dal sistema. Certo, sono cambiate le parti e forse, grazie anche all’avanzata tecnologica, possiamo dire oggi che è più sicuro.
Il primo tuffo di prova avviene in Vasca Panerai.
Ci sono i rudimenti da imparare. Pochi, ma necessari: lavaggio, vestizione e svestizione sul fondo.
Il lavaggio è da ripetere tre volte: inspirare dal sacco ed espirare dal naso, in maniera tale da rimuovere tutto l’azoto dal sistema. Da lì in avanti, con la chiusura del circuito si può dire di avere un terzo polmone che però ossigenerà i nostri tessuti 5 volte di più che con la normale respirazione.
Togliersi l’a.r.o. e poggiarlo sul fondo, risalire in superficie, respirare e riscendere nuovamente ad indossarlo, è l’altro esercizio fondamentale. Oltre che ad essere una procedura di sicurezza che permette un controllo visivo dell’attrezzatura, fa parte anche dell’operosità.
A vederlo lì, appoggiato così sul fondo della vasca, l’a.r.o. sembra una macchina che appartiene ai racconti fantastici di Jules Verne.
“Fra” dice il capo-palombaro ad uno degli allievi allungandogli un’affettuosa gomitata nella costole “ricordati di espirare quando risali a prendere aria in superficie, altrimenti ti schioppano i polmoni”. Concetto semplice ma efficace e ti viene da sorridere pensando che la frase sembra parafrasata da “Men of Honor”, l’Hollywoodiano film con Robert De Niro.
Dopo aver imparato a gestire l’assetto in immersione da poche settimane con il GAV, con l’ARO bisogna riprendere tutto da capo. Le variazioni di quota sono più facili, gestire il tutto diventa nuovamente complicato. Anche perché l’ossigeno del circuito non è eterno. La sua resa dipende dalla nostra abilità nel controllo della respirazione e dal nostro grado di affaticamento, tutte funzioni che chiedono un aumento della respirazione. Più respiri meno ha tempo la calce sodata di purificare l’aria e allora il circuito è da “ricaricare” premendo la valvola del carico manuale e iniettando dal sistema nuovo ossigeno puro dal bombolino.
Il tutto, senza mai interrompere il circuito, senza far entrare acqua all’interno del sistema che segnerebbe la fine dell’operosità della macchina e dell’operatore.
Un circolo vizioso, che quando si prova emerge una cosa: manca sempre l’aria. Già, perché le prime volte si sente sempre il respiro mancare, una labile ma persistente sensazione di annegamento.
E allora capisci, lontano da ogni retorica, quando sia stata dura, avventurosa e difficile la guerra sottomarina di Duran De la Pen, Emilio Bianchi, Teseo Tesei, tanto per citare alcuni di quegli impavidi uomini, che tentarono di violare i porti di Malta e Alessandretta.
Finito l’addestramento in vasca dopo aver ripetuto allo sfinimento gli esercizi, si passa alle prove in mare, di giorno e di notte dove c’è da saggiare anche un’altra virtù personale: la resistenza all’iperossia.
Già. Troppo ossigeno fa male. Sembra un paradosso, ma è vero: diventa tossico, quando la sua pressione parziale supera le 2,2 atm si rischia di svenire e farlo quando sopra di sé si hanno 10 metri d’acqua significa avere buone probabilità di fare un viaggio senza ritorno.
Qui non c’entra la forza fisica, non ci sono “trucchi” che si possono imparare per supplire a qualche mancanza, la soglia è personale. È quella differenza che intercorre tra un centometrista e un maratoneta, non è solo questione di allenamento ma anche di predisposizione.
Non si allena e non si migliora. O è soddisfacente o non lo è.
E quest’anno per il corso c’è per tutti. Quasi tutti. Solo uno ha un mancamento dal ritorno da una notturna. Il safety diver si getta in acqua, lo recupera con sicurezza e lo mette a bordo in un attimo. Ma gli accertamenti portano ad esito infausto. La soglia è troppo bassa. Troppo pericoloso per l’allievo proseguire il corso.