Quest’anno i palombari in congedo hanno inaugurato la loro sede nel seno di Le Grazie. Una piccola sala a pochi passi dal mare e dalla base del Varignano. Alle pareti, fotografie storiche, foto di precedenti corsi, crest e bandierine. In una teca, una lana da palombaro con il classico zucchetto di lana rossa.
Qualche anno fa, dopo aver letto tutto e il contrario di tutto, non avevo ancora avuto una risposta definitiva sul perché di questa usanza, fu Gaetano “Ninì” Cafiero, storico appartenente alla tribù delle rocce, pioniere della subacquea ricreativa e grandissimo giornalista del settore a darmi una spiegazione, ad oggi la più semplice e plausibile: “Quando era il momento di far brillare gli esplosivi in acqua, bisognava avere la certezza che i palombari fossero tutti a bordo, contare gli zucchetti era il modo più veloce e il rosso, indossato solo da loro, aiutava velocemente nell’individuazione. Anche se quel giorno, nel mare di Brest, agli operatori dell’Artiglio non fu sufficiente”.
Gli aderenti dell’associazione per l’occasione hanno voluto fare una piccola cerimonia nella cerimonia, invitando i palombari in servizio e i futuri palombari, ovvero gli allievi del corso, ad un brindisi. Un modo di conoscersi, di dettare una sorta di continuità tra passato, presente e futuro, con una percettibile e sottile presenza di invidia nell’aria, tra chi era e non è più e chi vorrebbe ma non lo è ancora.
Prendendo il planning tra le mani ci si accorge di come sia evoluta la formazione subacquea, il corso oggi di 44 settimane presenta un iter continuo che, sebbene simile negli scopi finali, ha attrezzature evolute e impensabili solo fino a pochi decenni fa. E non è solo il GAV, dove i più “anziani” che leggeranno si ricorderanno di immersioni solo con lo schienalino o dei primi e scomodi GAV anulari intorno al collo, ma progressi come il Vyper, il nuovo circuito semichiuso in dotazione e se il tutto si raffronta con quanto richiesto ai primi palombari fa sorridere: il corso nell’Italia appena costituita era aperto a chi dimostrava di saper leggere e scrivere e dovevano superare la prova di permanenza lavorativa di 3 ore sul fondo del mare.
“Fra, domani A.N.” dice l’allievo ai colleghi venendo dalla Cala Subacquei. Ecco il momento tanto atteso, unici esclusi, i due aspiranti palombari della Guardia Costiera, a loro, per regolamento sono esentati e più che un premio è una sofferenza. Basta guardare i loro occhi.
Si dorme meno del solito, l’emozione è tanta. Quasi quasi, anche la corsa all’alba è meno pesante del solito. Oggi non piove, finalmente. Dal magazzino escono 4 scafandri completi, dalle scarpe ai piombi da mettere sul petto. Vengono approntati altrettanti barchini.
Si ride, si è spavaldi, vuoi per un mix di paura ed emozioni, vuoi che anche questo sia uno degli innumerevoli test, ma il tutto ha un brivido particolare quando, con le gambe oltre la scaletta, i compagni ti chiudono lentamente sulla testa l’elmo.
La storia ha un peso, maggiore degli 80 kg dell’attrezzatura, curiosa coincidenza, 80 anni come la ricorrenza di quest’anno (15 giugno 2013) che segna la prima formazione della categoria dei palombari.
Anche lo scafandro che indossano ha la sua età, come minimo 40 anni, un autentico Galeazzi “Made in La Spezia”, come recita la targhetta.
Storica azienda che ora non c’è più, ma che, nel panorama delle attrezzature del mondo subacqueo, assieme alla Siebe e Gorman erano le “Ferrari” del mare.
Lana verde sotto la spessa tela cerata, intorno gli allievi che aiutano nella complessa vestizione del collega che non può farla da solo. Si inseriscono nei supporti in gomma gli elementi del collare, si avvitano sopra i galletti di chiusura che rendono ermetico il vestito. Ai piedi si calzano le pesanti scarpe dal fondo in piombo, 7kg l’una. La braga viene fissata ben stretta. Stringendo il più possibile. I piombi al collo vengono fissati sulla scaletta, assieme al pesante elmo di rame. Prima di chiudere avvitandolo sul supporto filettato, il “Vecio” si avvicina e ti consiglia di mordere la tela gommata e di portela ben sotto il mento, “servirà.. servirà”, ti dice con il ghigno sulle labbra.
Mentre si fissa il vetrino sull’elmo, un ultimo check. Ancora più importante rispetto al solito, qui i tempi di intervento sono più lunghi rispetto all’immersone con autorespiratore, il safety diver ha poco margine e quindi la sicurezza deve essere maggiore.
“Palombaro pronto”.
Valvola dell’aria aperta. Un ultimo respiro. Un passo verso il mare.
Il tuffo.
“Palombaro in acqua”.
E quando sei in acqua, girandoti verso la “Cala Subacquei”, dove sul portone blu spicca il logo giallo stilizzato di un elmo con sopra la data 1910, cogli in un attimo la presenza di tutta la storia del corpo, che parte ben oltre rispetto agli 80 anni, ma che getta le proprie origini nel 1849 con la prima scuola voluta da Generale Della Bocca a Genova, allora ministro della Guerra e della Marina, ma del Regno di Sardegna e trasferita a La Spezia qualche anno dopo.
Un’istituzione presente nel giorno della nascita dello Stato Italiano e contrariamente a quanto si legge nel mare di internet, la subacquea è nata qui. In questo seno nel Golfo di La Spezia ed è una storia tutta italica.
L’immersione con lo scafandro non è semplice e in comune con l’immersone sportiva c’è solo la fisiopatologia subacquea. Il resto, tutto diverso.
Già il modo di nuotare, l’acquaticità ti spinge ad usare in contemporanea braccia e gambe per il sostentamento, ma qui le gambe devono rimanere ferme, immobili e un po’ rannicchiate, tutti gli spostamenti devono venire dalle braccia. La sincronia prevede 3 colpi di braccia e scarico di aria con la testa. Ma all’inizio non ci si riesce, inevitabilmente si va in ritardo e si cerca di compensare con trucchi che non sono trucchi, ma disperati tentativi di non “pallonare”.
Si chiude la valvola dell’aria, si scarica dal polsino, si fa forza all’interno dell’elmo pur di raggiungere la valvola di scarico e ai primi giri si è tutti un “bozzo” e per capire chi si è immerso basta guardare il mento: avrà un inconfondibile taglio. Così come la nuca, che farà male solo a sfiorarla, o la tempia destra, dove è presente la valvola dello scarico. Con le spalle affaticate, con i bicipiti che bruciano, sembra di essere passati più da un incontro sul ring che da un’immersione.
Il “vecio” ti guarda al ritorno sulla scaletta completamente distrutto. Sogghigna guardandoti il mento. “Te l’avevo detto io che dovevi mordere la tela”. E in corpo non c’è nemmeno il fiato per dirgli: “Testa di….rame!”